mercoledì 30 novembre 2011

LSF 2011 - Le sessions di Giorgio

 Kate Leys: “Produced or rejected? Is your script the best that it could be?
Ad aprire le danze  del festival ci ha pensato Kate Leys, ex capo dello sviluppo a FilmFour e Capitol Films e script editor di rinomata fama. Anche grazie a lei film come Full Monthy, Quattro matrimoni e un funerale e Trainspotting sono arrivati al pubblico “forti e chiari”. La sala è stracolma e c’è attesa, lei esordisce mettendo le mani avanti: «Non so niente, non possiedo nessuna formula magica».
Vero, per carità. Quel che segue è solo una possente miscela di intuizioni sulla drammaturgia filtrate dall’esperienza e di consigli su come muoversi. Con un comandamento ripetuto come un mantra: ciò che realmente porta avanti la storia non è il plot, ma il personaggio. Noi sceneggiatori, dice Kate, tendiamo a essere tipi un po’ passivi che si guardano attorno per nutrirsi, a cui viene naturale scrivere personaggi che si guardano attorno: non può funzionare. Quindi, se a proposito di uno dei tuoi personaggi ti dicono “non mi è piaciuto”, è perché non sei stato preciso e non sei riuscito a farlo “inquadrare” da chi legge.
A colpire è soprattutto il forsennato accento sulla fase di sviluppo di un progetto, in cui nulla è sacro e tutto sacrificabile sull’altare della progressione drammaturgica. La controprova arriva se si ha l’occasione di entrare in sala di montaggio: anche lo sceneggiatore più affezionato al proprio materiale diventa spietato giudice di se stesso e lascia sul pavimento un cimitero di scene che gli sembravano essenziali. Perché, in quel momento, il punto di vista diventa quello di uno spettatore.
Abbandono la sala riflessivo: quanto farebbe bene al cinema nostrano se la figura dello script editor “di professione” divenisse centrale come nel sistema anglosassone?

What the Broadcasting heavyweights want in 2011
Ecco, questa è uno di quelle sessions in cui si naviga tra frustrazione e invidia. Sul palco ci sono tre personaggi con facoltà di dare il semaforo verde alle nuove serie per i principali network britannici: Ben Stephenson (Bbc), Robert Wulff (Channel 4) e Robin Sheppard (Sky). La prima osservazione è anche la più importante: l’età media dei tre è tra i 35 e i 40. La Sheppard addirittura fa in qualche modo tenerezza: è la più giovane, sottolinea di essere al suo posto da soli due mesi e quasi si scusa per l’inesperienza («Ho potuto commissionare finora solo due progetti». Solo due Robin? In due mesi??).
La frustrazione arriva perché in qualche modo la session non mantiene quello che promette. Non ti dicono, insomma, quello che stanno cercando, ma si limitano a ribadire struttura, cifre e linee editoriali (generiche) dei rispettivi network. L’invidia subentra perché, paradossalmente, questo accade non perché gli interlocutori restino abbottonati, ma perché i network non esercitano preclusioni («Non voglio dirvi cose specifiche perché non voglio perdermi l’occasione di ricevere la vostra idea», sempre la Sheppard).
Come mai accade ciò? Quel che ho capito io è questo: in Gran Bretagna Sky ha cominciato a investire pesantemente sulle serie tv, generando una sorta di competizione virtuosa. Nei numeri, visto che Bbc 2 ad esempio annuncia un raddoppio del budget per la fiction. E nelle idee, perché - gli States insegnano - più soggetti produttivi entrano in gioco più l’audience si diversifica, e maggiore è la ricerca della qualità nel soddisfarne i bisogni. A quel punto si può osare, anzi si deve, perché questo aiuta anche le vendite all’estero (ok, pure la lingua inglese, riconosciamolo).
Ecco, quando parlavo di sistema incoraggiante, questo intendevo.

 Failure to launch: why most scripts crush and burn in the first ten pages
Palco affollato di speaker, ben 5 tra produttori, capi sviluppo, lettori, story consultant ecc. E un argomento forse troppo specifico, ovvero come appassionare chi legge nelle cruciali prime dieci pagine di uno script. Chiaramente, funziona soprattutto in “negativo”, con gli interlocutori a snocciolare gli errori più comuni che fanno interrompere la lettura. Si va dal basico («l’utilizzo del times new roman mi uccide») al ricorrente («non si capisce di “chi” è la storia», «non presentate i personaggi, drammatizzateli» e «non date un nome ai personaggi a meno che non vogliate che si investa emotivamente su di loro»). Capiamo che mettere una sinossi in prima pagina può essere estremamente controproducente, così come girare un teaser video («a meno che non siate James Cameron»). Ma gli speaker sono troppo d’accordo su tutto ed entrano troppo poco nel concreto della drammaturgia, quindi l’argomento specifico si esaurisce in fretta e la session diventa occasione per consigli generici. Con un assunto di base: Hollywood sta abbandonando il mercato dei film di medio budget, e il cinema europeo deve fiondarsi a riempire il buco.

 Ashley Pharoah
Era uno dei big e non ha deluso, raccontandosi per un’ora nell’atmosfera intima del Tuke Cinema, davanti a non più di 50 persone. Il 52 enne Ashley Pharoah, show runner di Life on Mars, Ashes to Ashes e molto altro, dal vivo sembra uno di quei tipi da pub dipinti da Loach o Leigh, tutti lingua schietta e accento ostico. A 8 anni già sapeva di voler scrivere, a 25 è stato pagato 300 sterline per una piece teatrale e ha capito di potercela fare, a 30 è entrato nel rutilante mondo della soap con EastEnders. Una grande palestra, dice, in cui ha conosciuto decine e decine di quelli che oggi definisce “i suoi contatti”.
E’ tranchant quando, parlando di metodo di lavoro, ammette di evitare le bibbie di serie come la peste. E quando entra “in scivolata” sugli attori («se non sono generosi, possono essere mostri. Il livello di mancanza di rispetto per gli scrittori è incredibile»). Non è meno netto a proposito dell’esplosione di Sky (e quindi di Murdoch) nel mondo della serialità, della quale si dice contento come sceneggiatore e molto meno come cittadino.
A chi gli chiede “perché la tv?” lui risponde secco: «Perché ho un mutuo da pagare. E perché la migliore scrittura sul pianeta oggi la trovi sul piccolo schermo». Da membro appassionato della Guild degli sceneggiatori britannici ammette che gli sceneggiatori televisivi stanno bene, hanno potere e sono ben pagati. Anche se, scopriamo, nemmeno un big come lui aveva nel contratto la possibilità di guadagnare denaro e poter dire la sua quando gli americani hanno comprato e rifatto Life on Mars. Sull’argomento non si nasconde, esprime le sue perplessità sulla versione US e snocciola gustosi aneddoti sulla sua visita nel set americano. Ad esempio l’incontro in camerino con Harvey Keitel, che lo saluta e poi si accalora: «Adoro il tuo show, ti rendi conto che questi ragazzi lo stanno fottendo?».
L’esperienza insegna, però. E i suoi contratti sono cambiati: da oggi, nel caso qualcuno compri le sue idee, dovrà vedersela anche con lui.

Giorgio Nerone

LSF 2011: IL TERRORE CORRE SUL PITCH

 Sabato sveglia, doccia, te bollente… e via verso Regents Park. È il secondo giorno so già la strada, ma arrivo comunque trafelata nella hall del college, mi precipito al tavolo dell’organizzazione, do il nome e loro mi confermano l’appuntamento per il mio speed pitch, bisogna essere lì un quarto d’ora prima. Secondo tè bollente. Sono in anticipo e decido di andarmi a vedere una session, che sembra interessante dal titolo “Negotiation”.
Parla una psicologa che spiega come si vendono le cose. Sulle prime sono un po’ perplessa: sembra il classico training per addetti marketing, con i suggerimenti ovvi tipo: se dovete vendere qualsiasi cosa (che sia un orologio o un concept non fa differenza) mostrate interesse per il vostro interlocutore, presentatevi, non siate supponenti, cercate di capire cosa vuole il vostro interlocutore. Mi annoio e inizio a immaginarmi Don Draper al posto della biondina, per evitare di abbioccarmi. Dopo un quarto d’ora di ovvietà inizia la ciccia buona: modelli di mappatura del cervello, studi psicodinamici derivati dalla ricerca sull’Alzheimer, insomma la manna dello sceneggiatore: schemi. 
Il modello Hermann è uno schema diviso in 4 colori: persone a dominanza blu, verde, rossa o gialla. La psicologa si è definita una Rossa: emotiva, attenta alle relazioni interpersonali, si basa sull’istinto sensoriale. Anche io credevo di avere una dominanza rossa e invece mi sa che ho maturato anche molte capacità gialle. I Gialli sono quelli che aspirano al cambiamento, pensano al futuro e cercano soluzioni per evolvere, soprattutto in situazioni di stallo.
I Blu sono animali da blues, ovviamente: razionali e logici, analitici, spesso lavoratori manageriali (reparto produzione per capirci). I Verdi sono pianificatori sereni e tranquilli, hanno bisogno di programmare bene il viaggio prima di partire. Il punto di tutta la manfrina psicologica (oltre che aiutare a creare buoni cast da sit-com) è: conosci te stesso e le tue debolezze e cerca di capire al volo chi ti trovi davanti.

Dopo lo psycho-training vado allo speed-pitching e arrivo in ritardo. Le ragazze dell’organizzazione non si scompongono, solo che non avrò più i tre tizi previsti, ma tre di un altro che ha cambiato turno. Quindi non ho idea di chi siano le persone a cui sto andando a pitchare.
Cerco di rasserenarmi nell’attesa, in compagnia di altri poveri autori in evidente ansia da prestazione. C’è un certo nervosismo, alle pareti le biografie dei panelist che ascolteranno i pitch e la mappa con la disposizione dei tavoli.
Il momento dell’ingresso nella sala-pitch è tipo corsa all’inizio dei saldi davanti a Dolce Gabbana. Ci si piazza al primo tavolo (borse e zaini sono rimasti nella sala d’attesa, per non impicciare i movimenti) e attacca a raccontare per i 5 minuti concessi prima di schizzare al secondo tavolo.
La mia prima interlocutrice è una personalità Verde un po’ soprappeso, molto gentile, si occupa di comedy per la televisione. E lei stessa a dirmi che per il mio drama che finisce con il suicidio del protagonista non è proprio adatta. Ma permette di esercitarmi. Ottimo rompighiaccio.
Passo a un tavolo al centro della sala: il secondo che mi ascolta è un giovanile quarantenne, non so chi sia, ma ho l’impressione che mi segua nonostante il mio inglese stressato, cerco di parlare piano e con calma. È un produttore, mi chiede se ho già lo script in inglese e gli dico che conto di scriverlo entro Natale (sono ottimista, pure troppo…). Alla fine dei miei minuti si prende la sinossi e il mio biglietto da visita e mi da il suo dicendo: appena lo scrivi mandamelo.
Devo passare al terzo e ultimo “cliente”: giovane sui trenta, si occupa di post-produzione e quando gli dico che il mio progetto è un adattamento da Goethe, chiede subito se sia fuori diritti. Con un sorriso il più possibile garbato, rispondo che è roba del ‘700, può stare tranquillo.
Tempo scaduto usciamo tutti. Chi vuole può bersi un’aranciata, nella sala d’attesa c’è già un altro gruppo che aspetta il suo turno. Entrano, la sala d’attesa rimane vuota. Quelli del mio gruppo spariscono verso il networking break nel giardino del college.
Mi fermo nella sala d’attesa, vuota. Un portatile suona Sympathy for the Devil degli Stones. Mi sembra una degna chiusa dopo tre incontri surreali. L’unica cosa che riesco a pensare è che il produttore di mezzo si ricordi di me quando gli manderò lo script as soon as possibile.
Fare un pitch, per uno scrittore, è molto più spaventoso che incontrare Belzebù incarnato a un incrocio. Quindi penso che, come ogni screaming queen da film horror che si rispetti, conviene avere il coraggio di mettersi a nudo, almeno di fronte a Satana, sperando che al momento buono si ricordi di darci una mano, senza per forza vendergli l’anima.

Fosca Gallesio

mercoledì 23 novembre 2011

PASSAGGIO AL DIGITALE E RISCHI PER IL CINEMA EUROPEO


Durante il convegno di Roma per i 20 anni di Media si sono tenuti una serie di incontri sul cinema digitale e i suoi sviluppi tanto in Italia quanto in Europa.

Elisabetta Brunella (segretario generale MEDIA SALLES) ha fornito una precisa fotografia della DIGITALIZZAZIONE DELLE SALE IN EUROPA. Cosa ne è emerso? 
Che tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 la metà circa delle sale europee sarà digitale. In parallelo le major americane dichiarano di voler completamente abbandonare l’analogico intorno alla stessa data.
Inutile nascondersi che il passaggio al digitale è stato un forte drive per il ritorno degli spettatori al cinema, soprattutto grazie alla diffusione del 3D. Ma questi dati trionfalistici nascondono un duplice pericolo.

PRIMO PERICOLO: GLI ESERCENTI CHE RESTANO INDIETRO

Passare al digitale ha costi molto rilevanti per l’esercente. Anche se è diminuito il costo dei proiettori, sono aumentati i costi correlati: per lo schermo digitale è necessario un complesso apparato tecnologico che, seguendo gli attuali standard di proiezione a 2K, oscilla tra i 75 e i 170 mila euro a schermo.
Se si osservano i dati si nota che gli schermi digitali sono presenti in maggioranza nei multiplex (Multiplex e megaplex rappresentano l’89% degli schermi digitali). Fra le MONOSALE solo l’11% è digitale.
Perchè questa differenza? Perchè chi acquista grandi quantità di apparecchi per la proieizione digitale (ad es: i circuiti multisala) l’investimento è più semplice mentre per gli esercenti più piccoli i costi sono molto più elevati.
Oltretutto c’è anche un limite tecnologico. Alcune sale hanno appena finito di digitalizzare e già si va verso il superamento delle proiezioni a 2K per andare verso i 4K e un eventuale passaggio alla tecnologia Laser. Non è possibile per le sale affrontare un ammodernamento continuo e specie non ogni due anni.

SECONDO PERICOLO: I DANNI AL CINEMA EUROPEO

Se metà delle sale resteranno indietro e l’altra metà si darà al digitale cosa accadrà ai produttori europei? La gran parte del cinema europeo non è digitale. Paradossalmente dunque i piccoli produttori europei, al contrario delle grandi major che si stanno dando completamente al digitale, dovrebbe sobbarcarsi i costi per distribuire tanto in digitale che in analogico per raggiungere il suo pubblico.

Questo potrebbe significare l’aumento del GAP distributivo fra il cinema culturale e quello commerciale.

Soluzioni all’orizzonte non se ne vedono a meno che non si introduca per il cinema europeo un sottostandard basato sulla tecnologia HD, la stessa però che ciascuno si può montare nel comodo del salotto di casa propria…

Forse l’unica soluzione sta nella messa in campo di politiche pubbliche molto molto ben studiate.


Michele Alberico 

venerdì 18 novembre 2011

LSF - TUTTA LA VITA IL CORSO RAI


Con un sospiro di sollievo, alla chiusura della seconda edizione del London Screenwriter Festival, mi accingo a rientrare in Italia consapevole che questa volta non mi sentirò rimbombare in testa il solito adagio: “All’estero è tutta un altra cosa”.
Il bilancio finale della manifestazione, fatto salvo il pitching finale, è decisamente negativo per alcuni semplici motivi. Pur somigliando a un festival internazionale il LSF è, di fatto, molto british oriented e solo un 30% dei partecipanti era non inglese.
Questo non sarebbe assolutamente un problema se non ne determinasse una chiusura ad un pubblico non squisitamente britannico. Infatti  vi era un continuo sgomitare dei delegati in cerca dello script editor di turno a cui proporre qualcosa invece che un reale e proficuo scambio di vedute che in prima analisi era il motivo per cui avevo deciso di partecipare al festival. Se ci mettiamo poi che gli inglesi diventano socievoli dopo la terza pinta diventava difficile, almeno per noi italiani, la possibilità di portare a casa delle conoscenze utili o semplicemente qualcuno con cui si ha voglia di collaborare in futuro.
Il secondo motivo, che fa da corollario al primo, è che la maggior parte delle conferenze era rivolta a un pubblico di giovani esordienti. Questo rendeva tutto estremamente noioso e già visto, se ci aggiungiamo poi che le “session” riguardavano ancora temi abusati come il viaggio dell’eroe o le teorie di Campbell di cui ormai anche il più sparuto sceneggiatore fa incetta per conto proprio. Insomma, il LSF è apparso più un corso di sceneggiatura per chi si avvicina all’argomento che un perfezionamento della materia.
Il terzo motivo, il più grave, era la totale inesperienza all’insegnamento della maggior parte dei relatori. Probabilmente giovani astri nascenti della BBC incapaci però di esporre concetti con particolare ritmo o presa sul pubblico. A confermare che tra ottimi sceneggiatori e validi insegnanti corre ancora una bella differenza.
La sensazione è che moltiplicare le conferenze non abbia giovato alla qualità. Infatti, i pochi ospiti americani, più scaltri e navigati nel rapporto con il pubblico la facevano da padroni (vedesi conferenza tipo della Pixar). La sensazione è stata talmente condivisa che molti hanno lasciato le conferenze prima del termine. Il culmine è stato raggiunto l’ultimo giorno quando una di queste è stata clamorosamente interrotta, per manifesta noia, dal pubblico, con una rivolta stile Cannes ’68 dopo che il malcapitato relatore ci ha mostrato per un ora intera le slide di un libro di Mackendrick su Aristotele commentandole riga per riga.
Se ci aggiungiamo che il prezzo del festival era piuttosto alto direi che mi tengo tutta la vita il corso RAI.

Tommaso Capolicchio

LSF - IL DISCORSO DELLO SCENEGGIATORE


Parafrasando The King’s Speech, il London Screenwriters’ Festival è stato questo: una tre giorni dedicata esclusivamente al mestiere della scrittura, senza preclusione di genere narrativo o mezzo di comunicazione. Il punto di vista è quello degli autori e l’effetto è stato un po’ quello delle sedute di autoaiuto. Una sorta di Anonima Scrittori, con un gruppo di partecipanti (circa 300 persone) rappresentativo dello scenario mediatico europeo (con spinte centripete verso gli USA, limitate dal fatto che ormai la BBC vende molti format in America e ormai si sentono superiori anche a certi “guru” delle teorie americani).
“Ciao, sono Tim, sono un nerd e scrivo giochi” “Ciao, sono Georgia, ho 21 anni e scrivo Skins” “Ciao, sono Tal, ho 28 anni e scrivo serie per il web”. Ero un po’ spaventata da un gruppo così eterogeneo di persone, ma la tecnica della spontaneità e della semplicità si è rivelata vincente e durante il festival attaccare bottone e chiacchierare scambiandosi esperienze, consigli e frustrazioni è stata la cosa più naturale e divertenti per tutti i partecipanti.
Il punto di tutto quanto è uno solo: sopravvivere (per essere ottimisti basta pensare “viver bene del proprio lavoro”) in un’industria multimediale sempre più globale e complessa. La risposta semplice è la lezione che ogni sceneggiatore applica ai suoi protagonisti, ovvero cambiamento. Da manuale vogleriano il protagonista del viaggio stavolta sei tu, scrittore, il menthoring program del Festival ti invita a sganciarti dalla tua realtà ordinaria per annusare più cose possibili al di là di quello che tu fai, di dove vivi e di chi sei, offrendo una moltitudine di suggestioni di altre possibili strade da percorrere.
In tutto ciò la parola chiave è networking, cioè essere informati e attivi professionalmente sfruttando le potenzialità del web. E uno degli strumenti più importanti che offre il festival è proprio una community privata costruita come un social network, con forum e blog di discussione. Un modo per continuare l’esperienza del festival soprattutto dopo, per rendere una semplice chiacchiera con un collega tedesco davanti a un caffè una possibilità di espansione della propria attività professionale e creativa.
Forse il discorso può risultare un po’ utopico, ma devo dire che l’energia che si respirava durante tutto il festival è stata sempre forte e positiva, piena di entusiasmi e ricca di confidenze. L’impressione è che la chiave del successo dell’iniziativa sia molto semplice: alla sua seconda edizione il LSF si propone come un’Internazionale degli sceneggiatori, una rete di intelligence trasversale a mercati e realtà nazionali, che possa fornire agli scrittori contatti e informazioni per reagire alla crisi nel mercato globalizzato dei media.
Se siete scettici, peggio per voi…magari siete solo un po’ depressi o frustrati. A me m’hanno convinto che aveva ragione l’agente Mulder: “The Truth is OUT there”

Fosca Gallesio

mercoledì 9 novembre 2011

CREATED BY - LOW BUDGET, HIGH CONTENT


La crisi (o la volontà follemente suicida) del sistema paese Italia ha messo in ginocchio anche il nostro lavoro. Le ore di fiction sono diminuite, la lunghissima serialità ridotta al minimo, i compensi tagliati di oltre il 30%.
Il 60% di noi sono senza lavoro. I nostri più diretti interlocutori, i produttori, si dichiarano deboli e impotenti. Il sistema dei network soffre del conflitto d’interessi del nostro premier ed è disperatamente bloccato. Che fare?
La Sact l’ha già detto: dobbiamo contare su di noi, ripartire da noi. Non smetteremo certo di fare pressione sui luoghi del potere, il movimento della protesta e del Turning Point non si fermerà. Però, se la fiction generalista affonda, non basta chiedere al capitano di reggere meglio il timone: devi prepararti a nuotare.
I network dicono che la crisi delle fiction è solo crisi economica. Non è vero. In Gran Bretagna, la crisi economica c’è, ma le ore di fiction sono aumentate.
La nostra è una crisi di contenuti. Forse dovremmo dire che era ora, sperare che la crisi di contenuti porti alla crisi di sistema e si apra il mercato.
Forse dovremmo approfittarne.
Non sappiamo cosa succederà, ma dobbiamo comunque diventare più abili, muoverci su più fronti. Siamo autori e insieme artigiani: è una doppiezza che ci rende più forti. Se qualcuno di noi si adatta a uno stipendio, altri scelgono di dar ancora più voce alla loro individualità e passano alla letteratura. Siamo sceneggiatori, pensiamo per immagini: possiamo misurarci (e sta succedendo sempre più spesso) con la regia. Siamo sceneggiatori, sappiamo progettare in vista di un budget: possiamo trasformarci (come già ad alcuni accade) in produttori. La duttilità a cui siamo costretti può diventare la nostra forza. L’esplosione del web rende i confini delle professioni più labili.
La crisi svilupperà nuova ricchezza? Pensate che sia impossibile? Leggete cosa scrive Grant Ross direttore acquisizioni di Endemol: “Il mondo può essere un piccolo posto e gli acquiring manager sono ovviamente interessati a un luogo dove c’è molto talento… i budget limitati costringono i produttori a trovare soluzioni creative.” Sì, Grant sta parlando di Israele, ma non potrebbe parlare allo stesso modo dell’Italia?
DI NECESSITA', VIRTU'. Dal piccolo al grande, dal locale al globale. Possiamo imparare, possiamo cambiare prospettiva. Siamo italiani, ma dobbiamo pensarci più largamente occidentali.

 Per questo abbiamo voluto per noi, con un nuovo incontro CREATED BY, il prossimo MARTEDI' 15 novembre, alle 14,  alla Casa del Cinema Noah Stollman, sceneggiatore e creatore di Timrot Ashan, serie tv israeliana appena venduta alla NBC come Pillars of Smoke: parleremo di sistemi produttivi, di generi e dell'importanza dell'impianto narrativo.

L'incontro con Noah avviene all'interno del PITIGLIANI KOLNO'A FESTIVAL: seguitelo QUI.

venerdì 4 novembre 2011

London Screenwriters’ Festival 2011


L’esperienza
Sabato, ore 19. Nell’umido giardino del Regent’s College fumo nervoso un’assassina sigaretta al mentolo, l’unica che ho rimediato. Penso al gol appena visto con cui Ibra ha appena schiantato la Roma. Penso che ho saltato l’ultima session del giorno per imboscarmi a vedere la partita in streaming, accanto a sceneggiatori che ben più diligentemente facevano networking. Penso alla spossante session precedente con Paul Cronin che leggeva la Poetica di Aristotele sparata su un maxi-schermo, prima di auto-sospendersi per mancanza di incisività e direzione. Penso che qualcosa non va, in me o nel London Screenwriters Festival 2011.

Domenica, ore 18.30. Nella Tuke Hall l’organizzatore Chris Jones chiude il festival annunciando che sì, anche nel 2012 saranno qui più combattivi che mai. Lui e la sua crew si beccano una standing ovation al quale anche io partecipo con entusiasmo. Ci si saluta con rammarico, promettendo ai colleghi incontrati e-mail che magari non si manderanno, ma che è bello promettere in quel momento. E si va via con l’idea di aver fatto parte di “qualcosa”.

Cosa è cambiato in meno di 24 ore? Usando termini da addetti ai lavori, sul piano del plot la terza giornata è stata un bell’impennata, perché ha regalato alcuni degli interventi più interessanti. Ma la partita, si sa, la si gioca sulla linea del personaggio. E nel mio caso il climax è arrivato grattando via il cinismo e  una tendenza tutta italiana al retro-pensiero un po’ altezzoso.
Perché, al netto di alcuni aggiustamenti di rotta auspicabili per il futuro, il London Screenwriters’ Festival può dirsi riuscito. Prima di tutto nei numeri: 3 giorni nella confortevole cornice del Regent’s College, 90 incontri e conferenze tra cui dividersi, più di 500 partecipanti, tutti incredibilmente disponibili a condividere, ascoltare, consigliare. E uno stuolo di speakers variegato in cui spiccavano pezzi importanti di Bbc, Channel 4, Working Title e Sky. Non ultimo, potevi ascoltare raccontarsi David Reynolds (Alla ricerca di Nemo), Ash Atalla (The Office), Ashley Pharaoh (Life on Mars) e poi fermarti a chiacchierare con loro.

Vero, problemi ce ne sono stati. Andrà trovato un equilibrio migliore tra le numerose sessions mirate a chi si affaccia al lavoro e quelle più sporadiche di reale approfondimento teorico/pratico sulla scrittura. Per queste ultime, poi, una/due ore sono decisamente troppo poche e costringono lo speaker a correre. Una guru come Linda Aronson, nella sua notevole escursione sulle narrazioni non lineari, si è imposta un ritmo di tre parole al secondo e ha lasciato diverse vittime sul terreno. 
Incertezze, quindi, alle quali mi auguro gli organizzatori vorranno rimediare, ma che in definitiva non hanno alterato il buon sapore predominate.

Quel che davvero conta, alla fine dei giochi, è aver respirato energia, voglia di fare e ottimismo. All’inizio, coi paraocchi italiani di cui sopra ben saldi, mi sono chiesto quanto fosse reale. Ho attribuito il tutto all’eccessiva naivete dei delegati, molti dei quali in effetti aspiranti sceneggiatori. E mi son detto che la formula festival, in fondo, impone un po’ a tutti quelli che decidono di farne parte di essere ben disposti e collaborativi, anche solo a livello di facciata.
Poi, invece, ho realizzato che il LSF è la fotografia abbastanza fedele di un sistema di mercato realmente tale, aperto e per giunta in espansione. Un sistema, quello anglosassone, in cui puoi incontrare un produttore per un pitch senza aver ordito operazioni “carbonare” o scomodato santi. Un’industria in cui vige una vera separazione dei ruoli, con produttori e broadcasters che cercano le idee tra i creativi e non si sentono creativi in cerca di esecutori. In una parola, un sistema incoraggiante, in cui entusiasmo e ottimismo sono genuini e ammissibili.

Esco dal Regent’s College inebriato, ma ora dopo ora sento il friccicorio evaporare. Quando risalgo sull’aereo il pensiero dominante è: «Cazzo, sono uno sceneggiatore italiano».

Giorgio Nerone