Parla una psicologa che spiega come si vendono le cose. Sulle prime sono un po’ perplessa: sembra il classico training per addetti marketing, con i suggerimenti ovvi tipo: se dovete vendere qualsiasi cosa (che sia un orologio o un concept non fa differenza) mostrate interesse per il vostro interlocutore, presentatevi, non siate supponenti, cercate di capire cosa vuole il vostro interlocutore. Mi annoio e inizio a immaginarmi Don Draper al posto della biondina, per evitare di abbioccarmi. Dopo un quarto d’ora di ovvietà inizia la ciccia buona: modelli di mappatura del cervello, studi psicodinamici derivati dalla ricerca sull’Alzheimer, insomma la manna dello sceneggiatore: schemi.
Il modello Hermann è uno schema diviso in 4 colori: persone a dominanza blu, verde, rossa o gialla. La psicologa si è definita una Rossa: emotiva, attenta alle relazioni interpersonali, si basa sull’istinto sensoriale. Anche io credevo di avere una dominanza rossa e invece mi sa che ho maturato anche molte capacità gialle. I Gialli sono quelli che aspirano al cambiamento, pensano al futuro e cercano soluzioni per evolvere, soprattutto in situazioni di stallo.
I Blu sono animali da blues, ovviamente: razionali e logici, analitici, spesso lavoratori manageriali (reparto produzione per capirci). I Verdi sono pianificatori sereni e tranquilli, hanno bisogno di programmare bene il viaggio prima di partire. Il punto di tutta la manfrina psicologica (oltre che aiutare a creare buoni cast da sit-com) è: conosci te stesso e le tue debolezze e cerca di capire al volo chi ti trovi davanti.
Dopo lo psycho-training vado allo speed-pitching e arrivo in ritardo. Le ragazze dell’organizzazione non si scompongono, solo che non avrò più i tre tizi previsti, ma tre di un altro che ha cambiato turno. Quindi non ho idea di chi siano le persone a cui sto andando a pitchare.
Cerco di rasserenarmi nell’attesa, in compagnia di altri poveri autori in evidente ansia da prestazione. C’è un certo nervosismo, alle pareti le biografie dei panelist che ascolteranno i pitch e la mappa con la disposizione dei tavoli. Il momento dell’ingresso nella sala-pitch è tipo corsa all’inizio dei saldi davanti a Dolce Gabbana. Ci si piazza al primo tavolo (borse e zaini sono rimasti nella sala d’attesa, per non impicciare i movimenti) e attacca a raccontare per i 5 minuti concessi prima di schizzare al secondo tavolo.
La mia prima interlocutrice è una personalità Verde un po’ soprappeso, molto gentile, si occupa di comedy per la televisione. E lei stessa a dirmi che per il mio drama che finisce con il suicidio del protagonista non è proprio adatta. Ma permette di esercitarmi. Ottimo rompighiaccio.
Passo a un tavolo al centro della sala: il secondo che mi ascolta è un giovanile quarantenne, non so chi sia, ma ho l’impressione che mi segua nonostante il mio inglese stressato, cerco di parlare piano e con calma. È un produttore, mi chiede se ho già lo script in inglese e gli dico che conto di scriverlo entro Natale (sono ottimista, pure troppo…). Alla fine dei miei minuti si prende la sinossi e il mio biglietto da visita e mi da il suo dicendo: appena lo scrivi mandamelo.
Devo passare al terzo e ultimo “cliente”: giovane sui trenta, si occupa di post-produzione e quando gli dico che il mio progetto è un adattamento da Goethe, chiede subito se sia fuori diritti. Con un sorriso il più possibile garbato, rispondo che è roba del ‘700, può stare tranquillo.
Tempo scaduto usciamo tutti. Chi vuole può bersi un’aranciata, nella sala d’attesa c’è già un altro gruppo che aspetta il suo turno. Entrano, la sala d’attesa rimane vuota. Quelli del mio gruppo spariscono verso il networking break nel giardino del college.
Mi fermo nella sala d’attesa, vuota. Un portatile suona Sympathy for the Devil degli Stones. Mi sembra una degna chiusa dopo tre incontri surreali. L’unica cosa che riesco a pensare è che il produttore di mezzo si ricordi di me quando gli manderò lo script as soon as possibile.
Fare un pitch, per uno scrittore, è molto più spaventoso che incontrare Belzebù incarnato a un incrocio. Quindi penso che, come ogni screaming queen da film horror che si rispetti, conviene avere il coraggio di mettersi a nudo, almeno di fronte a Satana, sperando che al momento buono si ricordi di darci una mano, senza per forza vendergli l’anima.
Fosca Gallesio
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