venerdì 4 novembre 2011

London Screenwriters’ Festival 2011


L’esperienza
Sabato, ore 19. Nell’umido giardino del Regent’s College fumo nervoso un’assassina sigaretta al mentolo, l’unica che ho rimediato. Penso al gol appena visto con cui Ibra ha appena schiantato la Roma. Penso che ho saltato l’ultima session del giorno per imboscarmi a vedere la partita in streaming, accanto a sceneggiatori che ben più diligentemente facevano networking. Penso alla spossante session precedente con Paul Cronin che leggeva la Poetica di Aristotele sparata su un maxi-schermo, prima di auto-sospendersi per mancanza di incisività e direzione. Penso che qualcosa non va, in me o nel London Screenwriters Festival 2011.

Domenica, ore 18.30. Nella Tuke Hall l’organizzatore Chris Jones chiude il festival annunciando che sì, anche nel 2012 saranno qui più combattivi che mai. Lui e la sua crew si beccano una standing ovation al quale anche io partecipo con entusiasmo. Ci si saluta con rammarico, promettendo ai colleghi incontrati e-mail che magari non si manderanno, ma che è bello promettere in quel momento. E si va via con l’idea di aver fatto parte di “qualcosa”.

Cosa è cambiato in meno di 24 ore? Usando termini da addetti ai lavori, sul piano del plot la terza giornata è stata un bell’impennata, perché ha regalato alcuni degli interventi più interessanti. Ma la partita, si sa, la si gioca sulla linea del personaggio. E nel mio caso il climax è arrivato grattando via il cinismo e  una tendenza tutta italiana al retro-pensiero un po’ altezzoso.
Perché, al netto di alcuni aggiustamenti di rotta auspicabili per il futuro, il London Screenwriters’ Festival può dirsi riuscito. Prima di tutto nei numeri: 3 giorni nella confortevole cornice del Regent’s College, 90 incontri e conferenze tra cui dividersi, più di 500 partecipanti, tutti incredibilmente disponibili a condividere, ascoltare, consigliare. E uno stuolo di speakers variegato in cui spiccavano pezzi importanti di Bbc, Channel 4, Working Title e Sky. Non ultimo, potevi ascoltare raccontarsi David Reynolds (Alla ricerca di Nemo), Ash Atalla (The Office), Ashley Pharaoh (Life on Mars) e poi fermarti a chiacchierare con loro.

Vero, problemi ce ne sono stati. Andrà trovato un equilibrio migliore tra le numerose sessions mirate a chi si affaccia al lavoro e quelle più sporadiche di reale approfondimento teorico/pratico sulla scrittura. Per queste ultime, poi, una/due ore sono decisamente troppo poche e costringono lo speaker a correre. Una guru come Linda Aronson, nella sua notevole escursione sulle narrazioni non lineari, si è imposta un ritmo di tre parole al secondo e ha lasciato diverse vittime sul terreno. 
Incertezze, quindi, alle quali mi auguro gli organizzatori vorranno rimediare, ma che in definitiva non hanno alterato il buon sapore predominate.

Quel che davvero conta, alla fine dei giochi, è aver respirato energia, voglia di fare e ottimismo. All’inizio, coi paraocchi italiani di cui sopra ben saldi, mi sono chiesto quanto fosse reale. Ho attribuito il tutto all’eccessiva naivete dei delegati, molti dei quali in effetti aspiranti sceneggiatori. E mi son detto che la formula festival, in fondo, impone un po’ a tutti quelli che decidono di farne parte di essere ben disposti e collaborativi, anche solo a livello di facciata.
Poi, invece, ho realizzato che il LSF è la fotografia abbastanza fedele di un sistema di mercato realmente tale, aperto e per giunta in espansione. Un sistema, quello anglosassone, in cui puoi incontrare un produttore per un pitch senza aver ordito operazioni “carbonare” o scomodato santi. Un’industria in cui vige una vera separazione dei ruoli, con produttori e broadcasters che cercano le idee tra i creativi e non si sentono creativi in cerca di esecutori. In una parola, un sistema incoraggiante, in cui entusiasmo e ottimismo sono genuini e ammissibili.

Esco dal Regent’s College inebriato, ma ora dopo ora sento il friccicorio evaporare. Quando risalgo sull’aereo il pensiero dominante è: «Cazzo, sono uno sceneggiatore italiano».

Giorgio Nerone

6 commenti:

vinicio canton ha detto...

non so se mi sono perso dei post precedenti, ma oltre al commento mi piacerebbe avere la notizia. Che cosa è successo (prima del gol di Ibra)? E' venuta fuori qualche indicazione sulle condizioni di lavoro degli altri? Sullo sviluppo creativo che stanno avendo le fiscion nel resto del mondo? Cose del genere.

ciao e grazie
vin

Giovanna Koch ha detto...

allora, il mistero funziona... Eccoti una prima risposta di Giorgio, Vin, QUI (http://www.facebook.com/notes/giovanna-koch/giorgio-nerone-per-la-sact-dal-london-screenwriters-festival-28-30-ottobre-2011/10150917948005173).
Ma ne avremo delle altre, perché gli inviati a Londra erano più di uno e ne parleranno il 22 novembre in SACT alle 18:30. E avremo anche notizie sul futuro di Media.
Metti in agenda.

Paolo Cingolani ha detto...

"Continuiamo così, facciamoci del male". Poi magari proviamo a pensare a uno Script Festival de' noantri senza riderci sopra. E senza chiamarla "fìcscion", che fa un po' cagare.

vinicio canton ha detto...

@Paolo. Quanto hai ragione, sul chiamare o meno fiction la fiction. Anche se i problemi sono altri.

@giovanna. Mo', anzi ora, leggo. Grazie.

vinicio canton ha detto...

Letto il post. Prenoto un post per London next year.

Paolo Cingolani ha detto...

Ok, parliamo d'altro.
La formulazione del tv-movie e della miniserie ha stretta relazione con lo schema del lungometraggio cinematografico, da quello deriva e con quello ormai è integrata, agli effetti del suo sfruttamento. Tanto il cinema non si fa senza tv.
Visto che s'è già introdotto la figura dell'editor di produzione pure nello sviluppo del singolo film, quella formulazione può ormai essere estesa ad una nozione comune di "prototipo", che resti unico o che sia destinato ad un successivo sviluppo di serie. Ovvero, nella pratica della scrittura, della cessione e del destino, soggetto cinematografico = soggetto di serie (che sia mini, media o lunga).
Per dire che "fiction tv" è una nozione obsoleta - oltre che un barbarismo provinciale - e che tocca togliere la qualificazione restrittiva del medium di presunta destinazione: cinema, tv, dvd, sat, web/cavo, sono solo diverse facce dello stesso mercato della narrazione creativa, con analoga modalità di cessione dei diritti, differente solo nella quotazione dello sfruttamento economico per ogni singolo diverso medium.
Lo sviluppo seriale medio/lungo è l'unica distinzione utile alla definizione delle modalità di commissione e prestazione successive al soggetto.

Insomma, il "contratto nazionale" ideale potrebbe sciogliere in due capitoli le vecchie accezioni di opera diversa per il cinema o per la tv:
1 - diritti - cessione e/o commissione per a) soggetto, b) trattamento, c) sceneggiatura;
2 - prestazione - commissione per sviluppo seriale, articolato nelle diverse misure e funzioni.
Cioè, a mercato unico, gestione unica dei diritti, mentre cambia la gestione del lavoro, tra protoripo e serie.
Mah, si potrà cominciare a dire che la strategia dei diritti prevale sulle tattiche del lavoro?