mercoledì 30 novembre 2011

LSF 2011 - Le sessions di Giorgio

 Kate Leys: “Produced or rejected? Is your script the best that it could be?
Ad aprire le danze  del festival ci ha pensato Kate Leys, ex capo dello sviluppo a FilmFour e Capitol Films e script editor di rinomata fama. Anche grazie a lei film come Full Monthy, Quattro matrimoni e un funerale e Trainspotting sono arrivati al pubblico “forti e chiari”. La sala è stracolma e c’è attesa, lei esordisce mettendo le mani avanti: «Non so niente, non possiedo nessuna formula magica».
Vero, per carità. Quel che segue è solo una possente miscela di intuizioni sulla drammaturgia filtrate dall’esperienza e di consigli su come muoversi. Con un comandamento ripetuto come un mantra: ciò che realmente porta avanti la storia non è il plot, ma il personaggio. Noi sceneggiatori, dice Kate, tendiamo a essere tipi un po’ passivi che si guardano attorno per nutrirsi, a cui viene naturale scrivere personaggi che si guardano attorno: non può funzionare. Quindi, se a proposito di uno dei tuoi personaggi ti dicono “non mi è piaciuto”, è perché non sei stato preciso e non sei riuscito a farlo “inquadrare” da chi legge.
A colpire è soprattutto il forsennato accento sulla fase di sviluppo di un progetto, in cui nulla è sacro e tutto sacrificabile sull’altare della progressione drammaturgica. La controprova arriva se si ha l’occasione di entrare in sala di montaggio: anche lo sceneggiatore più affezionato al proprio materiale diventa spietato giudice di se stesso e lascia sul pavimento un cimitero di scene che gli sembravano essenziali. Perché, in quel momento, il punto di vista diventa quello di uno spettatore.
Abbandono la sala riflessivo: quanto farebbe bene al cinema nostrano se la figura dello script editor “di professione” divenisse centrale come nel sistema anglosassone?

What the Broadcasting heavyweights want in 2011
Ecco, questa è uno di quelle sessions in cui si naviga tra frustrazione e invidia. Sul palco ci sono tre personaggi con facoltà di dare il semaforo verde alle nuove serie per i principali network britannici: Ben Stephenson (Bbc), Robert Wulff (Channel 4) e Robin Sheppard (Sky). La prima osservazione è anche la più importante: l’età media dei tre è tra i 35 e i 40. La Sheppard addirittura fa in qualche modo tenerezza: è la più giovane, sottolinea di essere al suo posto da soli due mesi e quasi si scusa per l’inesperienza («Ho potuto commissionare finora solo due progetti». Solo due Robin? In due mesi??).
La frustrazione arriva perché in qualche modo la session non mantiene quello che promette. Non ti dicono, insomma, quello che stanno cercando, ma si limitano a ribadire struttura, cifre e linee editoriali (generiche) dei rispettivi network. L’invidia subentra perché, paradossalmente, questo accade non perché gli interlocutori restino abbottonati, ma perché i network non esercitano preclusioni («Non voglio dirvi cose specifiche perché non voglio perdermi l’occasione di ricevere la vostra idea», sempre la Sheppard).
Come mai accade ciò? Quel che ho capito io è questo: in Gran Bretagna Sky ha cominciato a investire pesantemente sulle serie tv, generando una sorta di competizione virtuosa. Nei numeri, visto che Bbc 2 ad esempio annuncia un raddoppio del budget per la fiction. E nelle idee, perché - gli States insegnano - più soggetti produttivi entrano in gioco più l’audience si diversifica, e maggiore è la ricerca della qualità nel soddisfarne i bisogni. A quel punto si può osare, anzi si deve, perché questo aiuta anche le vendite all’estero (ok, pure la lingua inglese, riconosciamolo).
Ecco, quando parlavo di sistema incoraggiante, questo intendevo.

 Failure to launch: why most scripts crush and burn in the first ten pages
Palco affollato di speaker, ben 5 tra produttori, capi sviluppo, lettori, story consultant ecc. E un argomento forse troppo specifico, ovvero come appassionare chi legge nelle cruciali prime dieci pagine di uno script. Chiaramente, funziona soprattutto in “negativo”, con gli interlocutori a snocciolare gli errori più comuni che fanno interrompere la lettura. Si va dal basico («l’utilizzo del times new roman mi uccide») al ricorrente («non si capisce di “chi” è la storia», «non presentate i personaggi, drammatizzateli» e «non date un nome ai personaggi a meno che non vogliate che si investa emotivamente su di loro»). Capiamo che mettere una sinossi in prima pagina può essere estremamente controproducente, così come girare un teaser video («a meno che non siate James Cameron»). Ma gli speaker sono troppo d’accordo su tutto ed entrano troppo poco nel concreto della drammaturgia, quindi l’argomento specifico si esaurisce in fretta e la session diventa occasione per consigli generici. Con un assunto di base: Hollywood sta abbandonando il mercato dei film di medio budget, e il cinema europeo deve fiondarsi a riempire il buco.

 Ashley Pharoah
Era uno dei big e non ha deluso, raccontandosi per un’ora nell’atmosfera intima del Tuke Cinema, davanti a non più di 50 persone. Il 52 enne Ashley Pharoah, show runner di Life on Mars, Ashes to Ashes e molto altro, dal vivo sembra uno di quei tipi da pub dipinti da Loach o Leigh, tutti lingua schietta e accento ostico. A 8 anni già sapeva di voler scrivere, a 25 è stato pagato 300 sterline per una piece teatrale e ha capito di potercela fare, a 30 è entrato nel rutilante mondo della soap con EastEnders. Una grande palestra, dice, in cui ha conosciuto decine e decine di quelli che oggi definisce “i suoi contatti”.
E’ tranchant quando, parlando di metodo di lavoro, ammette di evitare le bibbie di serie come la peste. E quando entra “in scivolata” sugli attori («se non sono generosi, possono essere mostri. Il livello di mancanza di rispetto per gli scrittori è incredibile»). Non è meno netto a proposito dell’esplosione di Sky (e quindi di Murdoch) nel mondo della serialità, della quale si dice contento come sceneggiatore e molto meno come cittadino.
A chi gli chiede “perché la tv?” lui risponde secco: «Perché ho un mutuo da pagare. E perché la migliore scrittura sul pianeta oggi la trovi sul piccolo schermo». Da membro appassionato della Guild degli sceneggiatori britannici ammette che gli sceneggiatori televisivi stanno bene, hanno potere e sono ben pagati. Anche se, scopriamo, nemmeno un big come lui aveva nel contratto la possibilità di guadagnare denaro e poter dire la sua quando gli americani hanno comprato e rifatto Life on Mars. Sull’argomento non si nasconde, esprime le sue perplessità sulla versione US e snocciola gustosi aneddoti sulla sua visita nel set americano. Ad esempio l’incontro in camerino con Harvey Keitel, che lo saluta e poi si accalora: «Adoro il tuo show, ti rendi conto che questi ragazzi lo stanno fottendo?».
L’esperienza insegna, però. E i suoi contratti sono cambiati: da oggi, nel caso qualcuno compri le sue idee, dovrà vedersela anche con lui.

Giorgio Nerone

1 commento:

Daniele Cosci ha detto...

Bel resoconto, ma alla fine mi pongo una domanda: perche' in Italia non e' possibile organizzare un Festival del genere?